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Doppelstern

Ascoltare un nuovo album di Barbara Morgenstern è un po' come darsi appuntamento con una vecchia amica, una di quelle che si vedono ogni cinque anni, ma con cui è sufficiente incrociare uno sguardo per ritrovare l'intesa di sempre e scambiarsi le confidenze e le impressioni più intime accumulate dall'ultimo incontro.
A tre anni dall'ottimo "Sweet Silence", interamente in lingua inglese e guidato da una ritrovata verve electro, ecco che "Doppelstern" rinnova l'incantesimo con undici brani-duetto (la "stella doppia" del titolo) con i quali la Morgenstern sembra voler tirare le fila di quasi ventanni di peculiarissimo songwriting che l'ha vista flirtare con il glitch, l'avanguardia, la techno e gran parte dei teutonismi venuti a galla agli albori del millennio.
Stilare un "greatest hits" sarebbe stata senza dubbio un'impresa pigra e artisticamente mortificante, per la sempre ispirata e curiosa Morgenstern. La cantautrice di Hagen ha scelto invece di rivedere il suo operato attraverso la lente delle tante collaborazioni messe assieme sin dai suoi esordi nell'eccitante scena berlinese di metà-Novanta. Ecco quindi che la nostra chiama a raduno gente del calibro di Robert Lippok, Gudrun Gut, Julia Kent, Hauschka e T. Raumschmiere.

Nonostante la compositrice tedesca non abbia mai ottenuto grandi consensi al di fuori del circolo degli appassionati del settore, il merito della sua musica è incalcolabile. Capace di traghettare l'indietronica verso una forma mutata di synth-pop ammaliante e dal forte sapore canzonettaro, la Morgenstern conferma anche in questa ultima fatica le sue straordinarie capacità. Le prime due tracce sono un esempio lampante del suo potere riassuntivo, infatti se “Was Du Nicht Siehst” è un brillante esempio di godibilissimo tech-pop, “Meins Sollte Meins Sein” rispecchia certe tendenze classical molto in voga negli ultimi anni. Le innumerevoli collaborazioni all'interno della scaletta impreziosiscono e donano varietà al disco, evitando di rendere troppo frammentario l'andamento.

Singoli pop di spessore (i singulti alla berlinese di “Übermorgen” e ”No One Nowhere Cares”) si incastonano fra sofisticati esempi di ambient-pop (“Too Much” con Gudrun Gut e “Gleich Ist Gleicher Als Gleich”), strumentali dal fascino morboso (la tesa “Facades”) e un pezzo dall'andamento midtempo dai sapori jappo (“Aglow”). La coda dell'album, con il picco nel pezzo pianistico “Schie”, ricorda le tentazioni cameristiche di “BM”, convogliando l'opera verso una sorta di compendio di portata consistente. L'arte di Barbara giunge dunque a un punto fermo, da cui dovrà ripartire convogliando le sue forze su qualcosa di nuovo e magari più elettronico.
A scapito della sua vena pop più posata, la chiave per poter esplodere seriamente sarà quella di puntare su quella verve electro di cui parlavamo ad inizio recensione. È in quel caso che Barbara raggiunge il massimo del suo appeal, coniugando la sua grazia compositiva con un'innata capacità di comporre melodie indimenticabili.

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Hören Sie ein neues Album von Barbara Morgenstern ist ein wenig wie ein Datum mit einem alten Freund zu machen, einer von denen, die Sie alle fünf Jahre zu sehen, aber das reicht aus, um einen Blick zu überqueren, das Verständnis aller Zeiten wieder zu erlangen und mit anderen teilen Vertraulichkeiten und Intimere Eindrücke seit dem letzten Treffen.
Drei Jahre nach dem ausgezeichneten „Sweet Silence“, komplett in Englisch und durch einen neu gewonnene Schwung elektro geführt, hier „Doppelstern“ erneuert den Bann mit elf Song Duett (der „Doppelstern“ des Titels), mit dem den Morgenstern scheint die Saiten von fast zwanzig Jahren Songwriting peculiarissimo ziehen zu wollen, der sah, wie sie mit dem Glitch flirtet, die Avantgarde, Techno und die meisten auf die Oberfläche des Milleniums teutonismi zu kommen.
Einen "Greatest Hits" zu komponieren, wäre ohne Zweifel ein faules und künstlerisch klägliches Unterfangen für den stets inspirierten und neugierigen Morgenstern gewesen. Der Sänger von Hagen wählte stattdessen seine Arbeit durch die Linse der vielen Kollaborationen, die seit seinem Debüt in der aufregenden Szene in Berlin Mitte der neunziger Jahre zusammengestellt wurden. Also, so nennen wir Robert Lippok, Gudrun Gut, Julia Kent, Hauschka und T. Raumschmiere.

Obwohl die deutsche Komponistin außerhalb des Kreises der Fans in der Branche nie viel Unterstützung gefunden hat, ist das Verdienst ihrer Musik unberechenbar. Die Fähigkeit, die Indietronica zu einer mutierten Form von betörendem Synth-Pop mit einem starken melodienartigen Geschmack zu überführen, bestätigt Morgenstern auch in diesem neuen Werk seine außergewöhnlichen Fähigkeiten. Die ersten beiden Tracks ein gutes Beispiel für seine Zusammenfassung der Macht sind, denn wenn „Du nicht siehst War“ ist ein brillantes Beispiel für angenehme Tech-Pop „Meins Meins Sollte Sein“ spiegelt bestimmte klassische Tendenzen in der Mode in den letzten Jahren. Die unzähligen Kollaborationen in der Aufstellung verschönern und geben der Scheibe Abwechslung, indem sie verhindern, dass die Progression zu fragmentiert wird.

Individuelle Dicke pop (Schluchzen Berliner "Ubermorgen" und "No One Cares Nowhere") zwischen anspruchsvolle Beispiele für Ambient-Pop ( "Too Much" mit Gudrun Gut und "Gleich Ist Gleicher Als Gleich"), instrumental eingebettet von morbide Faszination (das Tempus "Facades") und ein Stück mit Midtempo-Geschmack mit Jappo-Aromen ("Aglow"). Der Schwanz des Albums, mit dem Höhepunkt im Klavierstück "Schie", erinnert an die kammermusikalischen Versuchungen von "BM" und kanalisiert das Werk zu einer Art Kompendium von beträchtlicher Größe. Barbaras Kunst erreicht somit einen festen Punkt, von dem sie anfangen muss, ihre Kräfte auf etwas Neues und vielleicht Elektronisches zu teilen.
Zum Nachteil der Pop-Art, die sich in der Öffentlichkeit befindet, wird der Schlüssel zu einer ernsthaften Explosion darin liegen, sich auf den Electro-Verve zu konzentrieren, über den wir zu Beginn des Reviews gesprochen haben. In diesem Fall erreicht Barbara das Maximum ihres Reizes und kombiniert ihre kompositorische Anmut mit einer angeborenen Fähigkeit, unvergessliche Melodien zu komponieren.

indieforbunnies.com

“Sweet Silence” è il sesto disco della tedesca Barbara Morgenstern.

Mixato da T.Raumschmiere (Shitkatapult) e pubblicato dalla Monika Enterprise il disco ha già un estratto che possiamo scaricare free.

Indie-eye über Sweet Silence

Per i cultori della scena musicale tedesca, legata grossomodo all’area dei To Rococo Rot (Tarwater, Whitetree, Dakota Days, B.I.L.L, ecc.), Barbara Morgenstern non ha bisogno di alcuna presentazione. Attiva ormai da oltre quindici anni, l’artista si è ritagliata progressivamente uno spazio di primo piano, in virtù di uno spirito avventuroso, curioso, sempre aperto al desiderio di espandere il senso della propria musica in tutte le direzioni possibili, toccando ogni territorio del suono elettronico: dai glitches degli esordi, passando dall’impro dei September Collective, alle collaborazioni proprio con Robert Lippock e Maximilian Hecker, giungendo ad una propria personale forma di synth pop che la donna ha sviluppato di album in album sino ad oggi, raccogliendo consensi e piaceri professionali come il prestigioso duetto con Robert Wyatt (Camouflage da BM).
Dell’ampia discografia Sweet Silence è probabilmente il suo disco di più semplice ascolto, forse il più pop in senso lato. Di certo è il primo in cui la nostra fa uso del solo idioma inglese, tralasciando per una volta la madrelingua. Ed è lavoro di levità unica, morbido ed elegantissimo. Un tappeto percussivo elettronico che non cede un secondo, avvolto di synth dagli umori vintage, in una sintesi ‘80/’90/’00 di rara efficacia e profondità.
Su tutto poggiano le sue tonalità vocali da Joni Mitchell futuribile che, di volta in volta vengono dirette sui territori d’una Björk neo-minimalista (la titletrack) o sulle armonie Wyatt di Night Time Falls e The Minimum Says che per il resto sono puro To Rococo Rot sound.
A tratti, nella riformulazione delle algide armonie di ascendenza soul-jazz (essendo lei essenzialmente una pianista), affiora più di una similitudine con Agf; per esempio in Kookoo, sorretta da un sample ciclico che rimanda proprio a certe cose di Antye Greie-Fuchs con Vladislav Delay.
L’andamento da techno-dub prosciugata di Jump into the Life-pool e gli arpeggi euro di Need to Hang around si offrono come i brani più accessibili del lotto. Mentre Status Symbol gioca con gli stereotipi del club, aprendosi su un intreccio di glitches e voce che ad un terzo del brano cede interamente ad un ritmo tanto pulsante quanto leggero ed etereo. Così come la conclusiva Love Is In the Air, But We Don’t Care, che introdotta da un tappeto sognante di synth sembra alludere a dei Gus Gus dai volumi tagliati ed in certo qual modo anche la strumentale Hip Hop Mice, che fa da trait d’union tra il collettivo islandese (circa Attention) e la scuola mitteleuropea.
Spring Time e una tarantella al silicio e Highway è una splendida elegia wyattiana, che finisce per richiamarsi ai Sea & Cake, presentata come brano orchestrale ma l’orchestra non sembra discostarsi poi molto dal suono delle tastiere.
Sweet Silence è un disco fresco, brillante, adamantino. Non dice nulla che non sia già stato detto migliaia di volte ma lo fa con una purezza che rende ogni nota unica, ogni armonia fondamentale. E poi gode di una scrittura eccellente, forte della sua assoluta semplicità.
Nel migliore dei mondi possibili sarebbe un successo planetario.

Thenewnoise über Sweet Silence

La storia musicale di Barbara è quasi sempre legata a un certo tipo di elettronica alternativa e qui non si fa eccezione, solo che – in qualche modo, anche grazie alla sua voce – tutto arriva più morbido. Sintetico, ma pop.  Per vecchi, magari, nel senso che se ne frega di cosa va di moda oggi, continua a guardare al proprio brodo di coltura berlinese, strizza velocemente l’occhio ai genitori Kraftwerk e ambisce (ancora più di prima? Troppo?) alla facilità, come forse del resto ci si può aspettare da una di quarant’anni, anche se conosciamo tante eccezioni alla regola. Sweet Silence, comunque, ha delle eccellenti melodie elettroniche e non se le gioca solo per uno o due pezzi sui quali puntare, riuscendo per tutto il tempo a tenere alta l’asticella della qualità: piace la svagatezza della title-track, posta all’inizio, così come la fuga solo strumentale di “Status Symbol”, che arriva una mezzora abbondante dopo, quando in mezzo ci sono già stati episodi divertenti come “Need To Hang Around”, “Kookoo” (notare gli auto-campionamenti vocali) e “Spring Time”. Barbara, dunque, si porta dietro il proprio genere di partenza, ma punta sulla scrittura per parlare a più gente possibile, non solo al suo giro. Il rischio, come sempre, è di annacquare tutto, ma non si direbbe questo il caso. Non si sta svendendo (e se si sta svendendo ha perso il momento giusto), si sta solo pacificando e per fortuna, ma qui dovrà deciderlo ciascun ascoltatore, lo fa con una manciata di buone canzoni.

Ondarock über Sweet Silence

Inframezzato dalle prove in gruppo con i September Collective ("Always Breathing Monster" del 2009) e l'esperimento jazz insieme a Bill Wells, Annie Whitehead e Stefan Schneider ("Paper Of Pins" sempre del 2009), "Sweet Silence" arriva a quattro anni di distanza da "BM" accompagnato da una buona dose di sorprese.
Con le ultime uscite l'artista berlinese sembrava aver abbandonato l'electro-pop tipicamente tedesco, marchio di fabbrica molto in voga ad inizio anni Zero. Lo stesso "BM" si smarcava in modo netto da certe trame proponendo un pop orchestrale dal fascino irresistibilmente retrò e raffinato, la cui componente elettronica si riduceva ad alcuni ricami.
"Sweet Silence" sembra invece tornare indietro di una decina d'anni. Infatti la struttura è quasi completamente sintetica, tanto che nei pezzi cantati pare di sentire un synth-pop primordiale, robotico, in cui l'evocazione dei Kraftwerk è quasi scontata (si ascolti l'intro di "Highway", in cui lo spettro dei maestri di Düsseldorf si aggira già nel titolo).

In questo disco la prima cosa che risalta in maniera lampante è la bellezza dei suoni. Un album elettronico riesce a sollevarsi dalla media se le melodie sono belle, inusuali, frizzanti e non statiche. In "Sweet Silence" troveremo un campionario sterminato di composizioni impossibili da dimenticare - infatti, fin dall'iniziale title track, passando per la magnifica e gelida "Spring Time", saremo assaliti dall'inappuntabile grazia di ogni singolo pertugio.
Il nuovo lavoro si muove però anche su un ulteriore livello, che potremmo definire quasi "cantautorale". Forte delle recenti esperienze di reading poetry (il progetto "Only My Pen Tolerates My Choices"), senza dimenticare il cameo nel canzoniere della concittadina Antye Greie-Fuchs, la Morgenstern sembra voler allargare il proprio raggio d'azione, abbandonando per una volta la lingua tedesca e abbracciando un campo lirico alquanto esteso, che spazia da frammenti di routine quotidiana a quiete riflessioni esistenziali, con la solita penna sottilmente canzonatoria, ma con una marcia in più in termini di poetica e comunicatività.

È grazie a questa combinazione, quindi, che "Sweet Silence" funziona alla perfezione come disco pop brillante e maturo, composto da tredici tasselli che si reggono peraltro benissimo anche singolarmente: il leggiadro synth-pop di "Need To Hang Around", il gioco a incastri di sampling vocali di "Kookoo", il gentile upbeat di "Jump Into The Life-Pool" (che riproduce sinteticamente quell'eterno movimento a spirale qual è il cerchio della vita) fino alla sinuosa deviazione electro di "Auditorium", in cui è più percepibile la mano di T. Raumschmiere in regia, e il bel crescendo glitch-techno di "Status Symbol", unico pezzo ad osare oltre i quattro minuti.

Diretto e incalzante, "Sweet Silence" è un esempio magistrale di leggerezza e lavoro certosino, di essenzialità e freschezza primaverile. Per un disco che si rifà a modelli creduti morti e stantii non è davvero niente male.

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